PIRANDELLO-LAVIA, BINOMIO VINCENTE
di Luigi
Pistillo
Prodotto dalla Fondazione Teatro della Toscana è approdato a
Milano al Teatro Franco Parenti ”L’uomo
dal fiore in bocca” di Luigi Pirandello.
Il “fiore” è l’epitelioma, un tumore alla pelle. Ed il protagonista del dramma che ne è affetto vive gli sgoccioli della sua
esistenza osservando gli aspetti della quotidianità e, “come un rampicante alle
sbarre di una cancellata”, rimane attaccato ad essi gustando, per esempio, la
bravura dei giovani di bottega mentre confezionano i pacchetti. Sua moglie
vorrebbe che rimanesse a casa per prestargli le sue amorevoli cure, ma egli,
rivolgendosi all’avventore del bar della stazione con il quale sta
colloquiando, dichiara che non può stare fermo. È come immaginare i cittadini
di Messina o di Avezzano, vittime del terremoto, “spogliarsi placidi, placidi
per mettersi a letto. Ripiegare gli abiti, mettere le scarpe fuori dell’uscio e
cacciandosi sotto le coperte godere del candore fresco delle lenzuola di bucato
con la coscienza che fra poche ore sarebbero morti. Le sembra possibile?”
Chiede l’uomo affetto dal male al suo interlocutore.
E sembra possibile che alla fine del secondo decennio del
presente secolo nihil sub sole novum!? Ossia nulla è cambiato, non c’è stato alcun miglioramento circa la prevenzione
da quando l’autore girgentino rappresentò la sua opera nel 1922. Per cui gli
abitanti delle zone a rischio di terremoto continuano a “ripiegare gli abiti, mettere le scarpe fuori dall’uscio…”
ignari di quello che accadrà dopo poche ore.
L’edizione del capolavoro pirandelliano visto al teatro
milanese è firmata da Gabriele Lavia (pure interprete principale), il quale
innesta nell’atto unico, con mano felice, alcune novelle (sempre di
Pirandello), ottenendone un’opera nuova, originale; rispettosa, tuttavia, degli
intendimenti dell’autore siciliano.
L’inizio dello spettacolo è spettrale e preconizza il senso
della morte che permea di sé tutto l’atto unico. È una notte di tempesta. Sullo
sfondo d’una sala d’aspetto (le scene sono di Alessandro Camera), attraverso
una vetrata, s’intravvede una donna che cammina e si ode uno sferragliare di
treni amplificato che produce un effetto sinistro, spaventevole.
Atmosfera vagamente dreyeriana che evoca l’anticamera
degli inferi, non un luogo dove
liberamente si può partire e ritornare.
Poi c’è un omino (“l’uomo dal fiore in bocca”) rannicchiato
su una panca. Potrebbe essere un clochard,
sicuramente non deve andare da nessuna parte; egli è in attesa, attende che
arrivi qualcuno. E difatti presto arriva. È un viaggiatore che ha perso il
treno, è carico d’un numero esagerato di pacchi e pacchettini dai colori
sgargianti. Inciampa e cade destando l’attenzione dell’omino che gli va
incontro gioioso, da squisito anfitrione. Si capisce che lo stava ansiosamente
aspettando. L’omino ha un aspetto trasandato: un cappelluccio, una giacchettina
sgualcita, eppure rivela con camicia e cravatta dei trascorsi di borghese
decoro. L’aiuta a raccogliere i pacchi, una raccolta che si svolge a ritmo di
danza con musica (l’autore delle appropriate
musiche è Giordano Corapi). Lavia si pone da subito in modo ironico, a
tratti clownesco. Sfodera il suo armamentario da artista del palcoscenico tout court, balla, corre con
sorprendente agilità dando l’impressione d’un giovane truccato da uomo
maturo. Accorcia la sua figura
ingobbendosi lievemente, un accorciamento simbolicamente legato
all’approssimarsi della dipartita. Mima la confezione di pacchi con la grazia
d’un Marcel Marceau, recita e canta con accento siculo, ma con misura non
scadendo nel pittoresco; da drammaturgo
e regista amplia il personaggio del viaggiatore (normalmente poco più che una
comparsa), rendendolo talora coprotagonista. Il ruolo è affidato al bravo
Michele Demaria che con voce stridula, contrapposta a quella calda, brunita e
corposa di Lavia, rende bene le stupefazioni, le riflessioni da “uomo
pacifico”.
Tra i due personaggi s’instaura immediatamente un’intesa. L’omino ha
marcato il territorio, considera quindi
la sala come uno spazio suo e si mette in desabillè invitando il suo
“ospite” a fare altrettanto. Gli fa sfilare scarpe e calze poiché inumidite dalla pioggia. Il viaggiatore si ben
dispone ad ascoltare le parole dell’omino che ha una gran voglia di vita e che
con disperata energia cerca di esorcizzare la sua tragica condizione. Vede la
moglie (la donna dietro la vetrata dell’inizio impersonata da Barbara Alesse) e
l’insegue armato di pistola e spara. Il tenero omino, pensando di uccidere la
moglie-morte, si nutre dell’illusione di potersi sottrarre al suo crudele
destino; e ciò genera in chi lo osserva un sentimento di commossa simpatia
verso cotanta disarmante ingenuità. Il viaggiatore ad un dato momento prende
commiato e l’omino rimane ancora solo, desolatamente solo, aspettando un
possibile prossimo “ospite”. L’allestimento visto al Parenti è d’una levatura eccezionale ed il pubblico ha voluto
ringraziare Gabriele Lavia tributandogli applausi prolungati, scroscianti,
riservati (almeno nella prosa è così), solitamente solo ai grandi eventi.
L'Ebbrezza della Cultura ringrazia infinitamente Luigi Pistillo per averci scelto.
Grazie